Quante ore, quanti giorni, o mesi, o anni, spesi in una vita nell’attesa che qualcosa accada, rinunciando all’azione, ai cambiamenti che la vita propone, per accomodarsi nelle abitudini e nella ripetitività dei giorni? Quanti tra noi aspettano i Tartari lasciando che la vita si consumi? La rilettura in età matura de Il deserto dei Tartari non mi ha
turbata come la prima giovanile lettura. Forse perché da ragazza mi insinuò il timore di poter sprecare la vita. Non è stato così. Perciò oggi la pena per la vita del tenente Drogo, protagonista del romanzo, è accentuata dalla consapevolezza che per lui le cose potevano andare diversamente. Ma il suo creatore non ha voluto così: in un tempo e in un luogo indeterminati, la sua storia è metafora dell’inedia, della solitudine, della ripetitività, e del destino umano. Giovanni Drogo è un giovane tenente destinato come primo incarico alla fortezza Bastiani, al confine con un deserto pietroso, da cui si aspetta, forse da secoli, l’arrivo dei Tartari e, con essi, il brivido, l’eccitazione della battaglia, la gloria. In questa attesa si consuma la vita di Drogo che lascia andare ogni occasione per tirarsi fuori dalla fortezza: dopo pochi mesi “già in lui il torpore delle abitudini, la vanità militare, l’amore domestico per le quotidiane mura”. Tutti alla fortezza Bastiani aspettano un destino eroico, l’ora fatale in serbo per ognuno e, così, la fortezza diventa una prigione in cui i suoi abitanti volontariamente si rinchiudono, preferendo l’attesa della gloria alla mediocrità della vita di tutti. Romanzo sulle aspettative deluse, che avvelenano la vita, Il deserto dei Tartari non delude chi legge, né chi rilegge.
Autore: Dino Buzzati
Casa editrice: Feltrinelli
L’ha ribloggato su Alessandria today.
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